lunedì 26 dicembre 2011


ADEPTA DELL'ARTE DI PELLEGRINO ARTUSI
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Poltergeist in corso Vercelli

Tra le usanze della mia famiglia non c'è mai stato il cinema natalizio. Per motivi di sindrome pre e post festiva, insieme a spiccate tendenze misantrope enfatizzate dalla digestione dei cibi pesanti, la sala cinematografica è sempre stata accuratamente evitata. Per me fa eccezione solo il godimento di andarsi a vedere (in solitudine) il cazzatone fantamagico di natale in un momento improbabile insieme a pletore di ragazzini e nonni. Ma in questo Santo Stefano 2011 io e mio padre abbiamo tentato di fare un'eccezione. Non ci aspettavamo di scatenare addirittura le forze oscure nel centro di Milano. Ma tanto può la forza della (dis)abitudine.
Mio padre è abbastanza ansioso e diffidente, quindi pur partendo con tre quarti d'ora di anticipo per il cinema in corso Vercelli ha iniziato subito a dire che eravamo in ritardo, che non ci sarebbe stato parcheggio e che non avevamo prenotato... Con una tale dose di pessimismo siamo riusciti a raggiungere l'area e parcheggiare sulle strisce residenti dietro il corso in soli 16 minuti dalla partenza da casa. Eravamo in anticipo sul film di 40 minuti. Ci avviamo per il corso sotto le luminarie natalizie, al crepuscolo... probabilmente passiamo sotto le suddette luci esattamente all'orario di accensione dell'illuminazione pubblica. Io stavo guardando il cellulare nuovo e papà camminava avanti un paio di metri, affrettandosi verso il cinema, infastidito dalla gente sul marciapiede. Sento un lieve rumore, solo un piccolo pof e percepisco un bagliore sullo schermo del cellulare, alzo la testa e vedo un fuocherello, come una fiammella a gas all'interno della lampada pubblica sospesa sopra la mia testa. Due ragazzini sghignazzano e dicono che sta per prendere fuoco tutto. In effetti la fiammella si intensifica e se ne accendono altre in tutte le lampade (che sono saltate per un corto). La gente inzia ad agitarsi anche perchè le fiamme dentro i lampioni sono sempre più allegre, iniziano a fondere il bulbo, che ricade in fiammelle di plastica fusa sul marciapiede e sulle auto e moto parcheggiate. La maggior parte dei lampioncini infuocati fonde, gocciolando sull'asfalto, ma ne resistono due che creano agitazione. Uno gocciola la plastica fusa sul cofano di una berlina tedesca e continua la sua combustione attecchendo su qualcosa, forse solo un volantino pubblicitario. La gente inizia a essere seriamente preoccupata e a chiedere: quando arrivano i vigili? Qualcuno allarmato richiama parenti curiosi: "Ragazzi via di lì che salta per aria!". Intanto il lampioncino vicino gocciola pericolosamente su due motorini e becca il bauletto in platica di uno dei due. Interviene un coraggioso signore in casco bianco che semplicemente sposta il motorino evitando che il bauletto prenda fuoco... Ma il cofano della macchina continua a bruciare. Un capannello di gente gli sta intorno, domandosi che fare. Uno getta il contenuto di una bottiglietta sulle fiamme, quello accanto a me (che me ne sto dall'altra parte della strada a documentare) commenta "Ecco il genio che cerca di spegnere il fuoco con la birra". Il cofano della macchina continua a bruciare fino ache arrivano due carabinieri in motocicletta a sirene spiegate che placano il fuoco con una spettacolare pompata di miniestintore. (fumo molto scenografico). Tutto sembra risolto quando sopraggiungono due camion dei vigili del fuoco. Siamo salvi. Tranne la berlina tedesca grigio metallizzata con il cofano sbruciacchiato e frizzato dall'estintore.
Ma la domanda che mi pongo è: perchè? La spiegazione che mi do è che io e papà dovevamo andare a vedere Sherlock Holmes 2 (esaurito, by the way) e secondo me l'incendio dei lampioncini è opera del fantasma di Sir Arthur che cerca in tutti i modi di boicottare lo sfacello ai botteghini operata dall'ex  baronetto di Madonna, Mr. Ritchie. è uno scontro autoriale metafisico. Il messaggio di Sir Arthur è: Guy resti un regista di terza categoria...

giovedì 15 dicembre 2011

DECALOGO ANONIMA AUTORI


1 Se una revisione dura più di tre ore, la colpa è dell’editor, non dello sceneggiatore

2 Occhio pesante fa male al portafoglio

3 Chi parla male, pensa male e lavora pure peggio

4 Salva la baracca ma non i burattini

5 Chi bussa due volte, vale la metà

6 Velocità e qualità vano pure d’accordo, ma la settimana sempre sette giorni tiene

7 Peggio del telefono è il citofono

8 Chi semina auditel raccoglie tempesta

9 Non esistono capi, solo imputazioni

10 Chi deve capire, capisce

lunedì 28 novembre 2011

Appuntamento al buio con Belzebù

http://youtu.be/Zi0zYDDz3Rk


Sabato sveglia, doccia, te bollente… e via verso Regents Park. È il secondo giorno so già la strada, ma arrivo comunque trafelata nella hall del college, mi precipito al tavolo dell’organizzazione, do il nome e loro mi confermano l’appuntamento per il mio speed pitch, bisogna essere lì un quarto d’ora prima. Secondo te bollente. Sono in anticipo e decido di andarmi a vedere una session, che sembra interessante dal titolo “Negotiation”.
Parla una psicologa che spiega come si vendono le cose. Sulle prime sono un po’ perplessa: sembra il classico training per addetti marketing, con i suggerimenti ovvi tipo: se dovete vendere qualsiasi cosa (che sia un orologio o un concept non fa differenza) mostrate interesse per il vostro interlocutore, presentatevi, non siate supponenti, cercate di capire cosa vuole il vostro interlocutore. Mi annoio e inizio a immaginarmi Don Draper al posto della biondina, per evitare di abbioccarmi. Dopo un quarto d’ora di ovvietà inizia la ciccia buona: modelli di mappatura del cervello, studi psicodinamici derivati dalla ricerca sull’Alzheimer, insomma la manna dello sceneggiatore: schemi.  (http://en.wikipedia.org/wiki/Herrmann_Brain_Dominance_Instrument)
Il modello Hermann è uno schema diviso in 4 colori: persone a dominanza blu, verde, rossa o gialla. La psicologa si è definita una Rossa: emotiva, attenta alle relazioni interpersonali, si basa sull’istinto sensoriale. Anche io mi credevo di avere una dominanza Rossa e invece mi sa che ho maturato anche molte capacità gialle. I Gialli sono quelli che ispirano al cambiamento, pensano al futuro e cercano soluzioni per evolvere, soprattutto in situazioni di stallo.
I Blu sono animali da blues, ovviamente: razionali e logici, analitici, spesso lavoratori manageriali (reparto produzione per capirci). I Verdi sono pianificatori sereni e tranquilli, hanno bisogno di programmare bene il viaggio prima di partire. Il punto di tutta la manfrina psicologica (oltre che aiutare a creare buoni cast da sit-com) è: conosci te stesso e le tue debolezze e cerca di capire al volo chi ti trovi davanti.

Dopo lo psycho-training vado allo speed-pitching e arrivo in ritardo. Le ragazze dell’organizzazione non si scompongono, solo che non avrò più i tre tizi previsti, ma tre di un altro che ha cambiato turno. Quindi non ho idea di chi siano le persone a cui sto andando a pitchare.
Cerco di rasserenarmi nell’attesa, in compagnia di altri poveri autori in evidente ansia da prestazione. C’è un certo nervosismo, alle pareti le biografie dei panelist che ascolteranno i pitch e la mappa con la disposizione dei tavoli.
Il momento dell’ingresso nella sala-pitch è tipo corsa all’inizio dei saldi davanti a Dolce Gabbana. Ci si piazza al primo tavolo (borse e zaini sono rimasti nella sala d’attesa, per non impicciare i movimenti) e attacca a raccontare per i 5 minuti concessi prima di schizzare al secondo tavolo.
La mia prima interlocutrice è una personalità Verde un po’ soprappeso, molto gentile, si occupa di comedy per la televisione. E lei stessa a dirmi che per il mio drama che finisce con il suicidio del protagonista non è proprio adatta. Ma permette di esercitarmi. Ottimo rompighiaccio.
Passo a un tavolo al centro della sala: il secondo che mi ascolta è un giovanile quarantenne, non so chi sia, ma ho l’impressione che mi segua nonostante il mio inglese stressato, cerco di parlare piano e con calma. È un produttore, mi chiede se ho già lo script in inglese e gli dico che conto di scriverlo entro Natale (sono ottimista, pure troppo…). Alla fine dei miei minuti si prende la sinossi e il mio biglietto da visita e mi da il suo dicendo: appena lo scrivi mandamelo.
Devo passare al terzo e ultimo “cliente”: giovane sui trenta, si occupa di post-produzione e quando gli dico che il mio progetto è un adattamento da Goethe, chiede subito se sia fuori diritti. Con un sorriso il più possibile garbato, rispondo che è roba del ‘700, può stare tranquillo.
Tempo scaduto usciamo tutti. Chi vuole può bersi un’aranciata, nella sala d’attesa c’è già un altro gruppo che aspetta il suo turno. Entrano, la sala d’attesa rimane vuota. Quelli del mio gruppo spariscono verso il networking break nel giardino del college.

Mi fermo nella sala d’attesa, vuota. Un portatile suona Sympathy for the Devil degli Stones. Penso a Goethe e mi vene in mente che non ho ancora visto Faust di Sokurov.
La canzone è una degna chiusa dopo tre incontri surreali. L’unica cosa che riesco a pensare è che il produttore di mezzo si ricordi di me quando gli manderò lo script as soon as possibile.
Fare un pitch a un produttore per uno scenggiatore è molto più spaventoso che incontrare Belzebù incarnato in un vigile a un incrocio. Ho capito che per vendere sapientemente un concetto conviene mettere a nudo un po’ di anima, sparpagliare biglietti da visita che non si sa mai, ma stare sempre attenti a usare l’inchiostro giusto e leggere tutte le clausole del contratto, prima di firmare. Non ti offendere amico, get behind me not in the way.

mercoledì 21 settembre 2011

Rassegna(TA) stampa

Oggi inizia la settimana della moda a Milano, il Corsera dedica un bellissimo inserto celebrativo 2001 - 2011: che mostra una cosa che avevamo capito già da un po': dopo gli 80 ecco il revival de li 90. 
Il problema è che tutto si ripete un po' troppo uguale, non vorrei vedere magistrati che saltano per aria per mano mafiosa e mandanza politica. 
Invece io già la stagione scorsa mi sono comprata i doc martens che per andare ai concerti rock sono ottimissimi. 
E poi a un sacco di gente je viene sta voglia di rivoltarsi: c'è in giro un'anarchia strisciante. Si rioccupano gli spazi. Si torna in piazza. Stamo a impazzì.
Alcuni Lucidi folli autori vedono in avanti: come il grande Alan Ball che con la quarta stagione del suo True Blood finalmente non sbaglia un colpo. 
Ottimissima anche la colonna sonora che raccomando: si apre con questo bel pezzone e annuncia tutto e sopratutto il tema:
Abbiamo capito perchè Sookie doveva essere una fata del cazzo... in preparazione della strega !
 

venerdì 9 settembre 2011

Grey's Anatomy: la voice over


La voce narrante di Grey’s Anatomy: Meredith, la protagonista ci porta dentro le emozioni di ogni episodio, facendo da introduzione e conclusione. Una presenza così densa della voice over permette allo spettatore di approfondire le sfumature emotive di ogni puntata.
In diverse serie americane degli ultimi anni si è fatto un uso molto attento della voice over: da Desperate Housewives, dove la defunta Mary Alice commenta le vicende delle sue ex vicine di casa, a Sex and the City, dove gli articoli sul sesso di Carrie facevano da sottofondo riflessivo alle avventure erotiche delle protagoniste.
La voice over di Grey’s Anatomy è diventato un vero marchio di fabbrica, tanto da essere anche sbeffeggiato in un’altra serie medica: Scrubs, quando il dott. Cox elenca le voice over di Grey’s come una delle cose che più odia, peraltro anche in Scrubs c’è un ampio utilizzo della voice over di JD in chiave ironica.

La prima puntata di Grey’s Anatomy, probabilmente uno dei migliori pilot degli ultimi anni, usa la voce di Meredith per chiarire quale sia la posta in gioco, in tutta la serie: “Il gioco. Dicono che o hai quel che serve per giocare, oppure no. Mia madre era una delle migliori. Io…in effetti…sono un po’ nervosa.” La competizione, la tensione, la necessità di essere solidali, la solitudine, sono questioni che Meredith, George, Izzie, Cristina e Alex, i giovani tirocinanti, dovranno affrontare nel corso della serie. Inoltre, ovviamente ci sono i problemi di cuore. Ma per questi l’ospedale sembra un terreno di gioco molto interessante. Come ci dice Meredith nel commento finale: “Non riesco ad immaginare una sola ragione per essere un chirurgo, ma riesco a pensare a centinaia di motivi per cui dovrei mollare. Ci sono vite nelle nostre mani. A un certo punto diventa più di un gioco: allora o fai un passo avanti o ti volti e te ne vai. Potrei mollare, ma c’è un problema: mi piace il campo di gioco.”

Grey’s Anatomy è una serie dove i protagonisti sono messi continuamente alla prova sia dal punto di vista professionale che personale, anzi generalmente i due aspetti coincidono. Meredith e Cristina che si innamorano dei loro capi, Izzie che si innamora di un paziente e per lui rischia di buttare via tutta la sua carriera, anche la gara che Burke, Derek, Addison e Mark conducono per diventare primari ha molto a che fare con le implicazioni personali e sentimentali delle scelte professionali. Ci sono dei limiti, dei confini, alcuni da attraversare, altri no. Nella seconda puntata della prima serie Meredith dice: “è una questione di linee. Il traguardo finale alla fine del tirocinio, aspettare in fila per una chance al tavolo operatorio, e c’è la linea più importante, la linea che ti separa dalle persone con cui lavori. Hai bisogno di confini, tra te e il resto del mondo.” Ma alla fine spesso i propositi iniziali crollano: “I confini non tengono fuori gli altri; ti rinchiudono dentro. La vita è un casino, è così. Allora puoi sprecare la tua vita disegnando linee o puoi vivere la vita attraversandole. Ma alcune linee sono troppo pericolose da attraversare. Lo so. Se però hai il coraggio di tentare, la vista dall’altra parte è spettacolare.”

Essere chirurghi, avere tutto, amore e carriera, felicità e soddisfazione, richiede molto impegno. E gli impegni che prendiamo con noi stessi, con gli altri sono alla base di molti dilemmi dei protagonisti di Grey’s Anatomy. “Per riuscirci, riuscirci davvero, come chirurghi, bisogna impegnarsi al massimo” dice Meredith all’inizio della sesta puntata dell’ultima serie, Questione di impegno (in originale Let the angels commit). In questa puntata George deve decidere se impegnarsi davvero con Callie, mentre Cristina è ormai intrappolata nel suo impegno per coprire i problemi di Burke con la mano. “A volte anche i migliori di noi hanno problemi a impegnarsi, e potremmo essere sorpresi dagli impegni che lasciamo scivolare via dalle nostre mani. Gli impegni sono complicati. Potremmo essere sorpresi dagli impegni che siamo pronti a prendere. Il vero impegno richiede sforzo e sacrificio. Ecco perché a volte, dobbiamo imparare dagli errori, e scegliere i nostri impegni molto attentamente.”

Ogni episodio di Grey’s Anatomy ruota attorno a un tema preciso, spesso, come nel caso dell’impegno, espresso in una sola parola. Gli sceneggiatori riescono con abilità a intrecciare diverse storie in una puntata, dai casi medici all’evoluzione delle vicende dei protagonisti, facendo ruotare tutto su un unico tema. Nell’episodio Fantasie della terza serie Meredith immagina di essere a letto al contempo con Derek e Finn, il veterinario: “I chirurghi di solito hanno fantasie su operazioni selvagge e improbabili. Uno collassa al ristorante, lo apri con un coltello da burro, rimpiazzi una valvola con una carota svuotata. Ma prima o poi un altro genere di fantasie si presenta. La maggior parte delle nostre fantasie finiscono quando ci svegliamo, svaniscono nella nostra testa, ma a volte siamo quasi certi che se ci proviamo abbastanza potremmo vivere il sogno”. È così che Meredith decide di uscire contemporaneamente con Finn e Derek, solo appuntamenti, per divertirsi e sentirsi corteggiata e vivere la sua fantasia, anche se in forma edulcorata. Intanto Alex affronta il caso di una bambina che crede di avere i superpoteri, perché non sente mai dolore, in realtà la piccola ha un problema neurologico e la sua storia insegna come vivere i propri sogni non sia sempre la cosa migliore. “La fantasia è semplice. Il piacere è buono, e raddoppiare il piacere fa ancora più bene. Il dolore è cattivo,  niente dolore è meglio. Ma la realtà è diversa. La realtà è che il dolore esiste per dirci qualcosa. Forse va bene così. Forse alcune fantasie dovrebbero esistere solo nei sogni”, dice Meredith nel finale mentre Cristina porta dei polli a Burke per esercitarsi a suturare, Izzie è ancora in piedi davanti all’ospedale e Alex la accompagna a casa.

Una degli inizi più coinvolgenti e anche più eccezionali è quello dell’ultima puntata della seconda serie, la mitica puntata del ballo, della morte di Denny, di Meredith e Derek che fanno l’amore nello stanzino. La puntata si apre con le voci dei diversi personaggi: “Meredith: Gli esseri umani hanno bisogno di molte cose per sentirsi vivi. George: La famiglia; Cristina: L’amore; Izzie: Il sesso; Derek: Ma abbiamo bisogno di una sola cosa…Burke: Per essere davvero vivi; Cristina: Abbiamo bisogno di un cuore che batte; Addison: Quando il nostro cuore è in pericolo; Alex: Rispondiamo in due modi; George: O scappiamo, o…; Izzie: Attacchiamo; Capo: C’è un termine scientifico; Alex: Comabatti; Addison: O fuggi; Bailey: È l’istinto; Meredith: Non possiamo controllarlo; Izzie: o forse si?”

sabato 3 settembre 2011

DISSOLUZIONE DELLA DIACRONIA


Il postmoderno è il presente, ma cosa lo definisce, cosa lo caratterizza? In sé è un effetto di temporalità, un presente vissuto come postumo. (Freud aveva già annunciato che il sapere si costituisce come sapere posticipato – nozione di nachtraglich, aprés coup). “Dirsi postmoderno significa riconoscere, consapevolmente o no, che non si è in grado di trovare negli anni che viviamo dei caratteri positivi che li distinguano dal mondo di ieri. […] Questi uomini di oggi non sanno che dirsi epigoni o posteri.” G. Petronio, Postmoderno? 
In questo momento storico più che posteri ho la sensazione che la gente abbia molti (troppi) postumi

giovedì 1 settembre 2011

Cosa è il dramma


Tanto l’incipit lo riscriverei un miliardo di volte. Una volta qualcuno mi chiese qual era la prima parola della mia tesi di laurea. Al momento non la ricordo. La verità è che potrei andare a cercare nei files, ma non ne ho voglia. Preferisco pensare che se fosse importante la parola me la ricorderei, invece è importante la domanda. Perché la domanda mi fa riflettere sull’incipit. Ma siccome questo non è l’incipit di un cazzo, andiamo avanti…
È che caricare il lavoro di un’aspettativa esagerata rischia di essere bloccante, forse è questa la ragione intrinseca del blocco dello scrittore. La paura. Che genera frustrazione e impossibilità di agire.
Io le paure ho sempre cercato di superarle. Ho sempre voluto. Si trattava di un desiderio di avventura. Ma anche di una necessità di fuga. Quando ero bambina andavo a letto con la pistola (giocattolo). L’idea è tipo: Freddy Kruger vieni che ti faccio il culo!
La verità è che sono cresciuta come una bambina nei boschi delle storie. Prima di scrivere ho soprattutto letto e mi sono divertita un sacco con delle fantasie troppo intrippose per poterne fare a meno da adulta.
Il problema vero è che mi diverto un sacco a immaginare le cose e questo, quando diventa un lavoro, sembra troppo meschino nei confronti del resto del mondo che appare invece drammaticamente bloccato all’interno di schemi di pulsioni e frustrazioni.
Sono cresciuta accanto a matti, questa è la salvezza e la chiave. Mamma la sapeva lunga: sentenziava molto, forse troppo, ma era così convinta di quello che diceva che suonava del tutto vero. Anche perché non lo diceva da sola.
Allora riflettiamo meglio: le storie che mi piacciono sono quelle delle bambine curiose e coraggiose. Non amo i divieti, ma rispetto le regole del gioco. Sempre. È importante avere delle buone regole, cioè efficaci. Altrimenti ti perdi facilmente. Le regole sono una guida, almeno per iniziare.
Poi c’è l’obbiettivo, che è altrettanto importante. Tra le regole e l’obbiettivo si esercita una tensione. Che rende l’obbiettivo necessario per la sopravvivenza/felicità/godimento e le regole stimolanti e costrittive al punto giusto da rendere il raggiungimento dell’obbiettivo drammatico, cioè ricco di azione.
Allora io adesso mi trovo in una biblioteca: ho la fortuna che si tratta di casa mia (cioè casa della mia famiglia). Quindi per me la biblioteca è un territorio da esplorare. Ci ho sempre trovato cose meravigliose.
Mi hanno allenato a farmi sempre delle domande, fino all’origine. E siccome mamma lavorava con Freud (con ricche intromissioni di molte altre cose) e papà è fondamentalmente un lettore compulsivo e il caso clinico più eccelso di cui mamma potesse innamorarsi, io sono sempre stata immersa nelle parole. Alla lettera.
Quindi etimologia: ho studiato greco antico e latino, con mamma che prima di essere un’analista era professoressa di lettere nel (s)fottuto ’68 e papà che parla molto bene le lingue, francese, tedesco, spagnolo, inglese (in realtà ormai peggio di me, eheheh). Quindi parole, ma, giusto per inciso, mamma parlava e basta e papà leggeva e basta. A me la famiglia Addams sembrava una famiglia totalmente normale. Noi eravamo i mostri veri.


Ma torno al punto che è: dramma.
Cosa è il dramma? Dall’enciclopedia è prima di tutto una moneta della grecia antica. Quindi dramma significa valore, aggiungerei, simbolico, sin dai tempi della Grecia antica. Se avete letto o visto uno qualsiasi dei vecchi, Eschilo o Euripide, appare evidente perché. Sono rappresentazioni molto potenti.
Dramma uguale denaro. C’è chi la chiama catarsi o entertainment, è la stessa cosa.
Sull’enciclopedia c’è scritto: “Se una donna avesse dieci dramme e ne perdesse una di quelle, or non accenderebbe ella la lucerna e rivolgerebbe tutta la casa tanto che ella la ritrovasse?” Si perché una donna sa che una scena di autentico dramma isterico è sempre un pezzo di bravura degno di molto valore (che, se volete = molto sesso = molto godimento).
Comunque dramma è anche un’unità di peso. Perché il dramma pesa, e spesso molto. Soprattutto su chi lo vive, ma per noi è importante che pesi su chi lo scrive, perché gli autori hanno una grande libertà: che chi lo vive non esiste.

Poi a dramma significa appunto, precisamente. E questo mi sembra anche molto importante. La risposta è sempre nel concept. Gli ammericani dicono let’s cut to the chase. Cioè: non menarla mai più a lungo del necessario e occhio a divagare. Tutti ci perdiamo dietro i fantasmi, ma l’unico fantasma che conta è quello originario; cioè quello che fonda il protagonista (o l’autore). È che a volte ci vuole una buona dose di azione, prima di capire che Slimer è il personaggio più significativo di Ghostbuster.

Poi a dramma a dramma: significa a poco a poco, parte per parte, mano a mano. Un concetto che se scrivi una scaletta è evidente: cioè ad un’azione succede una reazione. C’è chi lo chiama conflitto, mi pare che Freud lo chiami tensione, che a me piace di più perché implica l’idea di elasticità, mentre il conflitto lo vedo come una battaglia in cui c’è un vincitore, mentre invece la tensione può durare, il conflitto deve avere una fine (che è sempre una forma di morte, cioè una conclusione, un senso che è – in anticipo - un po’ troppo definitivo per poter sostenere l’infinito secondo atto). Diciamo che la tensione perdura, quindi continua irrisolta fino al conflitto, che è sempre finale, cioè può essere un gancio, se la sua risoluzione resta sospesa (commento dalla regia: sceneggiatori di Lost perché ho sempre la sensazione che state prendendo il pubblico troppo per i fondelli: you should worship your audience and give them a decent ending!), ma è sempre la battaglia finale (che sia di una puntata o di un film)
Essere a una dramma per fare una cosa: trovarsi sul punto di fare una cosa. Questo è interessante perché rappresenta il senso della scelta. Il protagonista deve trovarsi di fronte a un dilemma. Più forte è la tensione del dilemma, tra una cosa o un’altra, più intenso è il dramma.

Vendere il cervello a dramma: svolgere la propria attività intellettuale al servizio del miglior offerente. Questa a me fa molto ridere: mi viene in mente la scena di Frankestein JR quando Igor spacca la teca col cervello buono ed è costretto a prendere il cervello AB-Normal. Sul piano politico mi viene da pensare che l’unico produttore (cioè diavolo) a cui vale la pena vendere il tuo cervello è quello pazzo abbastanza da capire che per il lavoro che fai non puoi che essere AB-Normale e in fondo non c’è niente di male, perché la verità è che puoi fargli guadagnare un sacco di soldi inventando good drama.

Vorrei concludere solo con una storiella ebraica. Perché gli ebrei sono il popolo del libro e forse sono il popolo che è riuscito a perdurare più a lungo nella storia perchè quello che fanno è raccontare:
“Una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto” e raccontò: “Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baalshem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trascinò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando, come faceva il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie.”

Se vi vergognate di essere il giullare di corte non provateci nemmeno.  

mercoledì 3 agosto 2011

Biografia parte 1

Mamma, Papà e io
Fosca Gallesio nasce il 22 febbraio 1980 sulle ridenti pendici del lago di Varese, in una località dal nome profetico, nota come Sacro Monte. Trascorre l'infanzia sola a contatto con la natura, imparando immeditamente le principali tecniche di sopravvivenza, eccellendo nella caccia, ma soprattutto nella pesca e appassionandosi in particolare all'intaglio del legno e alla musica eroborea (ovvero suonare le foglie come flauti).
La sua educazione prosegue dal 1986 nella metropoli di Milano, dove Fosca si distingue presso l'istituto elementare delle suore Marcelline per essere stata espulsa diverse volte, di cui l'ultima e definitiva nel novembre 1987 dopo aver strappato con un morso l'orecchino di una compagna. Una delle suore ricorda così il motivo del contendere: "Era qualcosa di molto futile, mi pare avesse a che fare con il calcio e con (si fa il segno della croce) due ragazzi. Le bambine, cioè la bambina ferita, povera cara, e quella specie di demonio, discutevano su chi fosse il migliore, tra questo Dolly e una tale Menji".
Dopo averla iscritta alla scuola pubblic i genitori si decidono a fare frequentare alla piccola delle attività ricreative, che riescano a canalizzare i suoi istinti. Dalla classica pallavolo, all'equitazione, fino agli scacchi (fortissimamente voluti da suo padre, per insegnarle la strategia) e alla capoeira (allora ancora fuori moda, Fosca fa lezione con Jesus, un maestro legato anche alla Santeria).
Fosca, nei tre anni delle scuole medie, frequenta l'istituto gesuita Leone XIII, dove viene cooptata dai ministri dell'Opus Dei, che le fanno un efficace lavaggio del cervello. Nel 1992 Fosca è preda di una violenta crisi mistica, che la porta a recludersi per tre mesi nel convento di Castagnole in Piemonte. Non essendo batezzata prende tutti i sacramenti in una botta sola, con il risultato di ottenere un overdose, che per alcuni è giustificazione del suo stato emotivo confuso.
Nel 1993, dopo la fine della scuola, i genitori portano Fosca in uno dei loro viaggi, sperando di alleviare l'afflato al martirio della ragazza. La meta è la Romania, dove Fosca viene a contatto con il potente mito di Dracula, che diventa per lei un nuovo Dio.
I primi anni del liceo sono caratterizzati da un intenso studio (Fosca parla fluentemente latino classico e scrive in greco antico) e dalla partecipazione al movimento neo-gotico/dark, con un intensa fascinazione per culti demoniaci. Nel 1995 Fosca fonda un proprio gruppo che si riunisce il 22 di febbraio, agosto e novembre per celebrare cerimonie ispirate al vampirismo. Nonostante i sospetti di effettivo cannibalismo le autorità non sono mai riuscite a incastrare Fosca, nè altri membri del gruppo.
Il 1997 è l'anno della svolta: Fosca parte per il Messico, insieme a un amico conosciuto in Brasile. Qui entra a contatto con diversi sciamani e affronta le sue prime esperienze con le droghe allucinogene. Il peyote sarà per lei un importante "strumento di proliferazione delle mie sinapsi". Attraverso gli allucinogeni Fosca si avvicina alla cultura beat americana e scopre autori importanti, tra cui la vera folgorazione arriva con la scoperta di Philip K. Dick. Fosca si avvicina alla fantascienza con tutta la passione di addicted, inoltre proprio in questi anni inizia il fenomeno di internet e la personalità di Fosca si ridefinisce fondamentalmente cyber-punk.
Nel 1998 si trasferisce nella città eterna, dove finalmente conosce la vera vita di strada. Frequentatrice dei centri sociali, Fosca si dà alla militanza politica no-global, nel 1999 è a Seattle, dove passa tre notti in un'"autentica galera americana del cazzo", come recita una delle canzoni del suo gruppo hard core, FrullaMente.
Il capodanno del 2000 viene festeggiato a Parigi, citta dove Fosca si trasferisce, poco dopo. Qui la Gallesio vive negli ambienti degli squatters, ma continua anche la militanza internazionale, con un intensa frequentazione dei ghetti magrebini della città. Secondo alcune voci proprio nel corso di questi mesi Fosca si sarebbe sposata per la prima volta, con un arabo, non è chiaro però se si sia convertita all'Islam.
Nel 2001 Fosca viene arrestata nel corso del G8 di Genova. Rifiutando un avvocato e altro sostegno dalla famiglia, passa, praticamente per sua volontà, un breve periodo in carcere, dove inizia a dedicarsi alla scrittura.