giovedì 1 settembre 2011

Cosa è il dramma


Tanto l’incipit lo riscriverei un miliardo di volte. Una volta qualcuno mi chiese qual era la prima parola della mia tesi di laurea. Al momento non la ricordo. La verità è che potrei andare a cercare nei files, ma non ne ho voglia. Preferisco pensare che se fosse importante la parola me la ricorderei, invece è importante la domanda. Perché la domanda mi fa riflettere sull’incipit. Ma siccome questo non è l’incipit di un cazzo, andiamo avanti…
È che caricare il lavoro di un’aspettativa esagerata rischia di essere bloccante, forse è questa la ragione intrinseca del blocco dello scrittore. La paura. Che genera frustrazione e impossibilità di agire.
Io le paure ho sempre cercato di superarle. Ho sempre voluto. Si trattava di un desiderio di avventura. Ma anche di una necessità di fuga. Quando ero bambina andavo a letto con la pistola (giocattolo). L’idea è tipo: Freddy Kruger vieni che ti faccio il culo!
La verità è che sono cresciuta come una bambina nei boschi delle storie. Prima di scrivere ho soprattutto letto e mi sono divertita un sacco con delle fantasie troppo intrippose per poterne fare a meno da adulta.
Il problema vero è che mi diverto un sacco a immaginare le cose e questo, quando diventa un lavoro, sembra troppo meschino nei confronti del resto del mondo che appare invece drammaticamente bloccato all’interno di schemi di pulsioni e frustrazioni.
Sono cresciuta accanto a matti, questa è la salvezza e la chiave. Mamma la sapeva lunga: sentenziava molto, forse troppo, ma era così convinta di quello che diceva che suonava del tutto vero. Anche perché non lo diceva da sola.
Allora riflettiamo meglio: le storie che mi piacciono sono quelle delle bambine curiose e coraggiose. Non amo i divieti, ma rispetto le regole del gioco. Sempre. È importante avere delle buone regole, cioè efficaci. Altrimenti ti perdi facilmente. Le regole sono una guida, almeno per iniziare.
Poi c’è l’obbiettivo, che è altrettanto importante. Tra le regole e l’obbiettivo si esercita una tensione. Che rende l’obbiettivo necessario per la sopravvivenza/felicità/godimento e le regole stimolanti e costrittive al punto giusto da rendere il raggiungimento dell’obbiettivo drammatico, cioè ricco di azione.
Allora io adesso mi trovo in una biblioteca: ho la fortuna che si tratta di casa mia (cioè casa della mia famiglia). Quindi per me la biblioteca è un territorio da esplorare. Ci ho sempre trovato cose meravigliose.
Mi hanno allenato a farmi sempre delle domande, fino all’origine. E siccome mamma lavorava con Freud (con ricche intromissioni di molte altre cose) e papà è fondamentalmente un lettore compulsivo e il caso clinico più eccelso di cui mamma potesse innamorarsi, io sono sempre stata immersa nelle parole. Alla lettera.
Quindi etimologia: ho studiato greco antico e latino, con mamma che prima di essere un’analista era professoressa di lettere nel (s)fottuto ’68 e papà che parla molto bene le lingue, francese, tedesco, spagnolo, inglese (in realtà ormai peggio di me, eheheh). Quindi parole, ma, giusto per inciso, mamma parlava e basta e papà leggeva e basta. A me la famiglia Addams sembrava una famiglia totalmente normale. Noi eravamo i mostri veri.


Ma torno al punto che è: dramma.
Cosa è il dramma? Dall’enciclopedia è prima di tutto una moneta della grecia antica. Quindi dramma significa valore, aggiungerei, simbolico, sin dai tempi della Grecia antica. Se avete letto o visto uno qualsiasi dei vecchi, Eschilo o Euripide, appare evidente perché. Sono rappresentazioni molto potenti.
Dramma uguale denaro. C’è chi la chiama catarsi o entertainment, è la stessa cosa.
Sull’enciclopedia c’è scritto: “Se una donna avesse dieci dramme e ne perdesse una di quelle, or non accenderebbe ella la lucerna e rivolgerebbe tutta la casa tanto che ella la ritrovasse?” Si perché una donna sa che una scena di autentico dramma isterico è sempre un pezzo di bravura degno di molto valore (che, se volete = molto sesso = molto godimento).
Comunque dramma è anche un’unità di peso. Perché il dramma pesa, e spesso molto. Soprattutto su chi lo vive, ma per noi è importante che pesi su chi lo scrive, perché gli autori hanno una grande libertà: che chi lo vive non esiste.

Poi a dramma significa appunto, precisamente. E questo mi sembra anche molto importante. La risposta è sempre nel concept. Gli ammericani dicono let’s cut to the chase. Cioè: non menarla mai più a lungo del necessario e occhio a divagare. Tutti ci perdiamo dietro i fantasmi, ma l’unico fantasma che conta è quello originario; cioè quello che fonda il protagonista (o l’autore). È che a volte ci vuole una buona dose di azione, prima di capire che Slimer è il personaggio più significativo di Ghostbuster.

Poi a dramma a dramma: significa a poco a poco, parte per parte, mano a mano. Un concetto che se scrivi una scaletta è evidente: cioè ad un’azione succede una reazione. C’è chi lo chiama conflitto, mi pare che Freud lo chiami tensione, che a me piace di più perché implica l’idea di elasticità, mentre il conflitto lo vedo come una battaglia in cui c’è un vincitore, mentre invece la tensione può durare, il conflitto deve avere una fine (che è sempre una forma di morte, cioè una conclusione, un senso che è – in anticipo - un po’ troppo definitivo per poter sostenere l’infinito secondo atto). Diciamo che la tensione perdura, quindi continua irrisolta fino al conflitto, che è sempre finale, cioè può essere un gancio, se la sua risoluzione resta sospesa (commento dalla regia: sceneggiatori di Lost perché ho sempre la sensazione che state prendendo il pubblico troppo per i fondelli: you should worship your audience and give them a decent ending!), ma è sempre la battaglia finale (che sia di una puntata o di un film)
Essere a una dramma per fare una cosa: trovarsi sul punto di fare una cosa. Questo è interessante perché rappresenta il senso della scelta. Il protagonista deve trovarsi di fronte a un dilemma. Più forte è la tensione del dilemma, tra una cosa o un’altra, più intenso è il dramma.

Vendere il cervello a dramma: svolgere la propria attività intellettuale al servizio del miglior offerente. Questa a me fa molto ridere: mi viene in mente la scena di Frankestein JR quando Igor spacca la teca col cervello buono ed è costretto a prendere il cervello AB-Normal. Sul piano politico mi viene da pensare che l’unico produttore (cioè diavolo) a cui vale la pena vendere il tuo cervello è quello pazzo abbastanza da capire che per il lavoro che fai non puoi che essere AB-Normale e in fondo non c’è niente di male, perché la verità è che puoi fargli guadagnare un sacco di soldi inventando good drama.

Vorrei concludere solo con una storiella ebraica. Perché gli ebrei sono il popolo del libro e forse sono il popolo che è riuscito a perdurare più a lungo nella storia perchè quello che fanno è raccontare:
“Una storia va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto” e raccontò: “Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baalshem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trascinò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando, come faceva il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie.”

Se vi vergognate di essere il giullare di corte non provateci nemmeno.  

Nessun commento:

Posta un commento